Teatro

La mobilità negata nella danza di vita della Cunningham

La mobilità negata nella danza di vita della Cunningham

Mettere in scena il proprio dolore, per un artista, è spesso liberatorio. Molto più difficile a nostro avviso riuscire a cogliere per il pubblico, anche il più attento, il senso artistico, se non spettacolare, di quanto viene proposto, senza cadere nell’equivoco che, anche inconsapevolmente, può portare a considerare e giudicare ciò a cui si va ad assistere più sotto la spinta dell’emotività che dell’emozione. Ancora più difficile ci appare il compito quando viene portato in scena un handicap, come nel caso dello spettacolo ME (mobile/evolution) di Claire Cunningham che, sin dal titolo, risulta una sorta di coming out autobiografico con una scelta precisa: sottolineare la mobilità ostruita dalla malattia della performer, un’osteoporosi che sin da bambina la costringe all’uso delle grucce ortopediche. Operazione più che legittima, per carità; ma ci sembra doveroso evidenziare che la riuscita scenica di quanto proposto appare, dopo un incipit suggestivo, artisticamente poco coinvolgente se non, come notavamo ad inizio articolo, da un punto di vista emotivo, che viene sollecitato dalla dolorosa esperienza della donna.

A nostro avviso la Cunningham, nell’urgenza di esprimere la propria condizione, perde di vista un linguaggio artistico, a favore di una retorica che nuoce alla resa dello spettacolo e, soprattutto, non ci riesce di ravvisare quella sorta di “nuova forma di concezione di performance coreografica” promessaci dalle note che accompagnano lo spettacolo. Naturalmente gli applausi allo spettacolo sono stati intensi e sentiti da parte del pubblico che non può non sentirsi coinvolto e partecipe al dolore non solo fisico della Cunningham, e che difficilmente dimentcherà l’ultima scena in cui la performer accenna a movimenti danzanti sulle grucce, accompagnata dalle note di “Singin’ in the rain”. Momenti sicuramente toccanti e intrisi di positivo ottimismo.